Codici non stellette!

prisco toga400“Credo che il futuro migliore per lui sia nell’esercito”

“Alda, ne abbiamo già discusso tante volte, farà l’avvocato”

“Luigi, non capisco perché ti ostini, mio padre dopo aver fatto l’accademia di Modena si dimise e girò il mondo, di fatto non fece più niente per tutta la vita. Peppinello invece potrebbe fare l’ufficiale effettivo e fare carriera”

“Farà l’avvocato”

Una volta erano i genitori a scegliere il futuro dei figli e mi è sempre sembrato naturale pensare e dire che da grande avrei fatto l’avvocato.

 

L’idea di mio padre, che vinse su quella di mia madre, non l’ho mai sentita come un’imposizione. Il mio bisnonno e il nonno, paterni, erano fior di giuristi, mio papà un grande avvocato, io continuai, semplicemente, nel solco di famiglia senza pensare o avere altre vocazioni professionali.

 

Dopo la maturità classica mi iscrissi, nell’autunno del 1939, alla facoltà di Giurisprudenza, all’Università Statale.

 

Iniziai a studiare subito con grande impegno e la mia unica distrazione, o quasi, rimaneva il calcio. Al primo anno divenni capitano della squadra universitaria che batteva con spettacolare regolarità le corrispettive formazioni del Politecnico, della Cattolica e della Bocconi. Il torneo aveva una certa rilevanza tanto che era seguito dalla Gazzetta dello Sport che mandava al campo, per i resoconti di cronaca, il giornalista Tommasina.

 

Era un mio amico e puntualmente, tra le inutili proteste dei miei compagni di squadra che non venivano quasi mai menzionati, si leggeva: “…tra i bianconeri (già, purtroppo erano i colori della nostra maglia…) si è distinto Peppino Prisco. Un’ottima partita la sua…” La nostra massima aspirazione era l’ammissione ai Giochi Littoriali che vedevano la partecipazione degli universitari di tutto il Regno. Non fu possibile perché l’Italia il 10 giugno del 1940, con il discorso di Benito Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, entrò in guerra.

 

Nel 1941 fu una paradossale circolare del ministro Guidi, secondo la quale tutti gli studenti universitari nati nel 1921 erano chiamati alle armi come volontari, a farmi salire, con pochi giorni di preavviso, su un treno diretto ad Aosta. Nel battaglione dove erano riuniti gli alpini universitari studiai con relativo profitto. Nei momenti di pausa dalle esercitazioni, in camerata, leggevo e ripassavo i libri di testo, spinto dalle sollecitazioni di mio padre che mi chiedeva in via epistolare come proseguivano gli studi e mi incitava a non rallentare la preparazione universitaria. Riuscii a dare e a passare qualche esame anche se non con il massimo dei voti. 

 

I libri, non per mia volontà, li chiusi definitivamente nell’estate del 1942 quando partii per la Russia con gli alpini della divisione Julia. Ricominciare a studiare significò ricominciare a vivere e dalla piena primavera del 1943 fu un unico volo fino alla laurea del febbraio 1944 con una tesi sulla “riabilitazione del fallito”, di quei tempi – con Benito Mussolini - un tema di attualità… L’ inizio della mia carriera forense fu, curiosamente, non a Milano ma davanti al pretore di Varese, padre dell’onorevole repubblicano Del Pennino.

 

avvocato prisco1Nel 1945 arrivò l’iscrizione all’albo dei procuratori e una volta la legge imponeva che dovevano trascorre sei anni prima di potersi iscrivere all’albo degli avvocati. Essere procuratore significava non avere ancora un pieno riconoscimento, si lavorava, si ottenevano incarichi, ci chiamavano “Dott. Proc.” ma i nostri onorari erano dimezzati rispetto alle parcelle percepite dagli avvocati. Ma io ero stato un combattente di guerra, così fui agevolato: venerdì 10 maggio 1946 il mio nome fu scritto nell’Albo degli Avvocati. Insieme ai miei genitori mi recai al Palazzo di Giustizia, papà, che forse sognava quel giorno dal momento della mia nascita, era raggiante.

 

Ci fermammo in edicola a comprare il giornale e rivedo con chiarezza il titolo, storico, del nuovo Corriere della Sera: “Vittorio Emanuele III ha abdicato”, era il primo atto che avrebbe portato l’Italia a diventare una Repubblica. Anche mia madre col passare del tempo accettò e fu contenta della mia carriera forense.

 

Ogni qualvolta si svolgevano gli scrutini delle elezioni per il consiglio dell’Ordine degli avvocati rimaneva sveglia fino a notte inoltrata, in attesa della mia telefonata, su sua esplicita richiesta, per la comunicazione dell’esito.

 

Sono stato presidente dal 1968 al 1982 (il mandato più lungo dal dopoguerra) e per 14 anni consigliere; prendevo sempre la maggioranza assoluta dei voti. A uno dei primi scrutini, si svolse tra me e lei questo dialogo: “Pronto mamma, ho l’esito della votazione: sono stato rieletto”.

“Bravo Peppino, quanti voti hai preso?”

“1.100 voti di preferenza su 1.500 votanti, un ottimo risultato”

 

“Non riesco proprio a capire come mai ci siano state 400 persone che non ti hanno votato”.

Poi però ripeteva sempre:

“Se ti vedesse tuo padre, chissà come sarebbe contento”

Ricordo a memoria la motivazione scritta nell’attestato, che il Consiglio dell’Ordine mi conferì, insieme a una medaglia d’oro, nel 1984: 

“Per aver presieduto e condotto il Consiglio per quindici anni con saggezza e senso di equilibrio profondendo il massimo impegno e rivelando eccezionali dota di umanità”.

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