Trasferimento in via Podgora

Pallone-Vintage-20130830191945Il contratto d'affitto era firmato, nel palazzo di via Podgora al numero 13 c'era il nostro nuovo appartamento. Pochi anni più tardi, nell'autunno del 1935, papà decise di acquistare, al primo piano del numero 15, un appartamento più grande con due ingressi in modo da spostare il suo studio legale da via Cavallotti alla nuova sede e avere tutto in uno: casa e bottega o, come avrebbe detto un milanese doc, ca' e butega.

 

In piena guerra, durante un'incursione aerea, il palazzo al numero 13 di via Podgora fu centrato in pieno dalle bombe e andò completamente distrutto. Il nostro, il 15, quello che avevamo occupato da pochi anni, rimase invece miracolosamente intatto. Certo, il tribunale, la sede operativa per eccellenza di un avvocato, sembrava essere parecchio più lontano, ma sull'area di quella che era la caserma Principe Eugenio di Savoia in Corso di Porta Vittoria, a 50 metri da casa, sarebbero iniziati i lavori per la costruzione del nuovo Palazzo di Giustizia, inaugurato ufficialmente con la prima udienza del 23 luglio 1940.

 

La costruzione del tribunale a un passo dall'abitazione e la casa risparmiata dalle bombe furono una serie di fortunate – e meritate – coincidenze per chi, come mio padre, aveva sempre creduto in se stesso e rischiato in prima persona, senza appoggi di nessun tipo.

Via Podgora era lunga, larga quasi come un campo da calcio e non era trafficata; vi transitava una macchina all'ora, il traffico non era certo come quello di Corso Buenos Aires, asse portante della città, tagliato ogni minuto da carrozze, tram, biciclette e qualche auto. Qui, in via Podgora, per noi, ragazzini del quartiere, le ore trascorrevano liete.

 

"Passa!... dài..."
"Tira!..."
"Reteee!"

 

Iniziavamo a giocare nel primo pomeriggio, dopo la scuola, e finivamo a sera. Cinque, sei ore consecutive di partite a pallone, senza intervalli, con le porte formate dalle cartelle impilate l'una sull'altra, con le squadre che ruotavano giocatori in continuazione: chi andava via, chi entrava a gara in corso come nella pallacanestro.

 

Tra i miei amici c'era Sandro Migliazza, più grande di me di qualche anno; giocava male, era molto falloso, ma era un'autorità. La madre era professoressa al liceo Berchet, il padre professore al Beccaria e quindi nessuno osava protestare per le sue entrate sulle nostre caviglie.

 

Più tardi avrebbe lavorato nello studio con mio padre. Fu arrestato due volte, per motivi politici: la prima nel 1944 proprio in via Podgora, e la seconda alla vigilia della Liberazione. Io e papà lo avevamo aiutato spesso nascondendo pacchi interi di una pubblicazione, Giustizia e Libertà, considerata sovversiva dal regime fascista.

 

Fortunatamente, tra noi ragazzi, la politica non aveva peso e consideravamo amici anche Alfredo e Amedeo, due fratelli fascisti. Si stava bene insieme e si giocava. Questo bastava. Ricordo ancora i rimbalzi irregolari del pallone fatto di stoppa e stracci cuciti alla bell'e meglio. Lo colpivi di collo pieno per calciare verso la porta o lo appoggiavi di piatto per passare e lui saltava via come il pallone da rugby.

 

Alcune, rare, volte eravamo riusciti perfino ad avere una dignitosa palla di gomma, ma rivedo con nitidezza, come se fosse ieri, le facce dei miei compagni quando mi presentai per la prima volta in strada con un vero pallone di cuoio: bocche aperte, occhi spalancati, sguardi fissi sul nuovo oggetto ludico. Che allora costava 2 lire.

 

"Ehi sveglia! Non rimanete lì incantati: andiamo a giocare!..." Grazie alla generosità di mio padre ero diventato "el padrun de la bala" e il mio prestigio all'interno della squadra era aumentato in maniera esponenziale, tuttavia usai sempre il mio nuovo potere con una certa moderazione.

 

Da "padrun de la bala" avevo tacitamente acquisito il diritto di decidere chi doveva giocare e in quali ruoli e di solito relegavo il mio amico Alberto Alemagna, non particolarmente bravo coi piedi, in porta. Lui smentì sempre questa mia ricostruzione ma vi garantisco che era così.

 

Quando si colpiva la palla di testa, proprio dove c'era la stringa della cucitura, ci si faceva un male boia, e addirittura c'era il rischio di ferirsi, per cui era meglio tenere la palla a terra e magari avventurarsi in infiniti, entusiasmanti dribbling.