Peppino e i suoi amici

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Un giorno, tra le mille azioni della partita, mi capitò, su un traversone, una palla troppo invitante e, senza pensarci troppo sopra, calciai al volo.

Il successivo e quasi immediato rumore di vetri che andavano in frantumi mi fece capire che la mia pallonata, anziché infilarsi nell'immaginario angolino alto della porta, aveva infranto il parabrezza dell'auto del dottor Desideri, l'unica parcheggiata nella strada.

 

"Chi è stato a fare questo disastro?"
"Sono stato io, non sono riuscito a..."
"Stai zitto! E smettetela di giocare con questo pallone! Come ti chiami?"

 

Il Desideri era infuriato nero e mi minacciò di portare il caso davanti a mio padre la sera stessa, cosa che, ovviamente, fece. Mio padre, però, dolce e generoso com'era, risarcì il danno, non fece parola dell'accaduto con mamma e mi perdonò.

I pericoli più seri arrivavano dai "ghisa" – i vigili urbani che sequestravano la palla e davano la multa che era di dieci lire e dieci centesimi – e dal figlio del Dottor Clemente Ciccarelli, quello che, nei primi anni del 1900, aveva ideato il dentifricio Pasta del Capitano.

 

Si chiamava Nico e abitava al numero 7; ogni pomeriggio, quando noi "scendevamo in campo", si affacciava dalla finestra e urlava: "Andate a studiare. Finirete in galera!"Noi continuavamo a giocare e solo io ogni tanto gli rispondevo: "Ma va là, pirla!... Va' a lavorare!"

Primo esempio di imprenditore testimonial di se stesso, mi ricordai di lui decenni dopo, negli anni '60, quando lo vidi in tv in uno spot di Carosello: insieme a Carlo Dapporto pubblicizzava la famosa pasta dentifricia che si faceva ricordare anche per il jingle tormentone "Pasta del Capitanoooo".

 

Quando apparve per la prima volta sullo schermo ero a tavola con mia moglie e la mia reazione fu istintiva, goliardica, di cuore. Mi alzai in piedi e urlai: "Ma va là, pirla! va' a lavorare!" E lei, sconcertata: "Ma sei diventato matto?". Io, invece, mi ero solo risentito addosso la gioventù e di colpo mi ero riproiettato in via Podgora, a giocare al pallone.

 

A calcio continuai a giocare moltissimo, era la mia unica attività oltre la scuola. Tra gli altri divertimenti –davvero pochi– c'erano i bellissimi tornei di pedine: squadre al completo e foto a colori dei giocatori. Si manovravano con le nostre piccole dita da adolescenti su ampie scacchiere raffiguranti il campo di calcio.

 

Io pretendevo quasi sempre che la mia Inter vincesse lo scudetto e a volte ci riuscivo attraverso qualche interpretazione cavillosa del regolamento: un certo istinto di uomo di legge cominciava a farsi sentire fin da allora, un istinto che mi sarebbe servito decenni dopo quando contro il Mönchengladvaadaviaiciapp (troppo difficile da pronunciare il nome vero) avrei dovuto difendere la squadra del cuore... ma questa è un'altra storia e ve la racconterò in seguito.

 

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C'era anche un tennis club, in via Corridoni, zona Porta Vittoria, ma era costantemente affollato e i turni per avere a disposizione un campo erano impossibili. Infine, a metà degli anni '30, venne inaugurata la piscina Cozzi, ma il mio rapporto con il nuoto è sempre stato complicato. Non ho mai amato più di tanto nuotare, tuffarmi. L'estate si tagliava quasi a metà tra il mare di Torre Annunziata e la montagna di Arcisate.

 

Appena finita la scuola, il viaggio in treno, la sera tardi, era già vacanza. Si partiva dalla nuova Stazione Centrale, con grande concitazione per la febbrile ricerca del numero e la sistemazione in cuccetta. Per non parlare del numero infinito di valigie quasi vuote –che al ritorno sarebbero state colme di regali– da sistemare.

 

Nella casa natia di mio padre c'era un bellissimo giardino e una camera piena di giochi. Guardando dalla finestra, il Vesuvio imponeva la sua sagoma sullo sfondo del cielo. La mia nutrita compagnia era composta dai tanti cugini, tra i quali Michele, figlio di Salvatore, fratello maggiore di mio padre (fu proprio papà a incoraggiarlo alla scrittura attraverso un lungo contatto epistolare, in un'epoca in cui non c'era la teleselezione), e dagli amici.

 

Godevamo il sole fino al tramonto in spiaggia, correvamo in bicicletta, a piedi, nascevano i primi dialoghi con le ragazze. Le giornate sembravano non finire mai. Da fine luglio e per la prima parte di settembre fino all'inizio delle lezioni del nuovo anno scolastico, ci trasferivamo nella villetta che i miei avevano acquistato ad Arcisate, vicino a Varese: neanche un'ora di treno e si arrivava.

 

Papà lavorava a Milano, partiva alle 7.12 e tornava alle 18.40. Io andavo a prenderlo alla stazione e pretendevo che fosse lui il primo a scendere: volevo che mantenesse questa sorta di primato cittadino rispetto ai padri dei miei amici campagnoli.

Facevo parte di un bel gruppo di scalmanati e il campo sportivo era il nostro punto di ritrovo; con i ragazzi del paese avevo formato una squadra di calcio piuttosto forte e giocavamo tutti i giorni; io avevo il ruolo di attaccante e di testa ero fortissimo, le partite duravano all'infinito e solo il calare del sole e la mancanza di luce ci faceva smettere.

 

La maggioranza dei miei amici tifava per la Juventus: purtroppo eravamo immersi nel bieco quinquennio bianconero (1931-1935), quello dei cinque scudetti consecutivi, ma non era facile mettermi in minoranza.