Sognando Meazza

Giuseppe meazza 1937

Organizzavamo anche tornei di tennis e di ping-pong e quando i miei genitori mi regalarono il tavolo da gioco, iniziai ad allenarmi intensamente a casa tanto che in breve tempo divenni il miglior giocatore.   "Forza, avvocato Cillario: una partita?". "Mah, non so, con lei perdo sempre...". "Ieri però la sfida è stata combattuta, ho vinto 21 a 19. Vuole la rivincita?". "Va bene, e questa volta la batto!".

 

Il montepremi in palio era di cinque lire d'argento e non ho mai perso una partita di ping-pong con l'avvocato Armando Cillario: per indurlo a giocare –e a sperare di sconfiggermi– il più delle volte lo battevo con punteggi risicati, così lui covava l'illusione della vittoria alla prossima partita e continuava a giocare e a perdere immancabilmente le sue cinque lire.

 

Non ho mai conosciuto sconfitta neanche con il giurista Piero Schlesinger. Questi soffriva pesantemente le continue "lezioni" sportive tanto che arrivai a pensare di dargli la soddisfazione di vincere una partita. Ma credo di non averlo mai fatto. Andavamo in gita nei boschi della Valganna con lunghe camminate. Oppure si pedalava in bici fino a Porto Ceresio, sul lago di Lugano per fare il bagno.

 

All'andata sembravano tutte rose e fiori: c'era una discesa di sei chilometri che pagavamo al ritorno con una grande faticata in salita. Quando mi alzavo sui pedali sognavo d'essere Learco Guerra che batteva tutti quelli –quasi tutti– che facevano il tifo per Alfredo Binda, nato a Cittiglio, non lontano da Arcisate.

 

Credo di avere sviluppato proprio in quegli anni, su quei lunghi tratti di saliscendi, la grande potenza che avevo nelle gambe. Non avrei mai pensato, allora, che un giorno, sprofondato nella neve in Russia, mi sarebbe servita per tornare a casa... Un pomeriggio al quartiere Ortica di Milano, mentre stavamo per iniziare una delle solite partitelle, si presenta un bel ragazzo, esile, alto.

peppino prisco giuseppe meazza

"Chi è el padrun de la bala?" chiede.
"Io" gli rispondo.
"Ciao, mi chiamo Aldo Campatelli."
"Piacere, Peppino Prisco."

 

Anche i miei amavano questo paese tra laghi e montagna, un ambiente semplice e sereno. Stavano bene e avevano molti amici. Iniziammo a giocare e lui diede spettacolo con dribbling, palleggi, passaggi millimetrici, lunghi lanci che tagliavano in due il campo... lo chiamavano già "Petrone" per via della vaga somiglianza con Pedro Petrone, forte uruguaiano della Fiorentina primi anni '30. 

 

Aldo avrebbe giocato per poco tempo con noi: lo attendeva la serie A con la maglia dell'Ambrosiana-Inter.

Io nel ruolo di terzino indossai le maglie della S.S. Scarioni, storica società nata nel 1925, e del G.S. Fiamma Cremisi, legata a un gruppo rionale fascista. Sui campi di periferia non c'era un filo d'erba e le porte non avevano le reti che, all'epoca, erano fatte di corda ed erano piuttosto costose.

 

Gli spogliatoi non avevano le docce: la domenica mattina, finita la partita ci si cambiava e si andava via sudati. Solo i più fortunati potevano farsi il bagno a casa, ma quelli che non avevano l'acqua corrente –ed erano molti– si lavavano in cortile.

 

Situazioni normali, per noi, ma che, per un ragazzo di oggi, sono assolutamente inconcepibili. Io giocavo, mi divertivo e sognavo di chiamarmi sempre Peppino, di nome, ma Meazza, di cognome, come il grande centravanti dell'Ambrosiana; mi vedevo entrare negli spogliatoi, mettere la maglia a strisce nerazzurre, scendere in campo e segnare gol decisivi.

 

Per la possanza delle gambe e delle cosce mi sarei rivisto nel terzino Ivano Blason e molti anni dopo nel bomber "Kalle" Rummenigge. Kalle, però, non aveva la mia cellulite (causata dal lavoro sedentario). Malgrado i sogni e la buona volontà, dovetti rassegnarmi: nessuno mi chiese mai di diventare un giocatore dell'Inter e purtroppo sono sicuro che morirò con il dispiacere di non aver mai potuto giocare in notturna a San Siro, con la folla, le urla, il tifo, i miei gol, gli avversari e con l'erba illuminata dai fari..