Lalla, l'amore di una vita

matriminio peppino lalla

Fu un amico comune a farci incontrare. "Peppino, ti presento una ragazza che ama i canti degli alpini: Lalla, questo è un alpino reduce di Russia". "Ciao, io sono Peppino". "Piacere, Maria Irene, ma tutti mi chiamano Lalla".  Ricordo perfettamente la prima volta che ho incontrato la donna che sarebbe diventata mia moglie. Mi trovavo a una festa organizzata da alcuni miei amici, verso la fine del 1946, e ambedue eravamo già fidanzati.

 

Non parlammo molto in quel primo incontro anche se vederla a quella serata, dove il tema erano gli alpini e tutto il loro mondo, mi destò una piacevole sensazione. La salutai con la speranza di poterla rivedere. Accadde poche settimane dopo e questa volta la festa la lasciammo insieme.


"Ti piacciono veramente i canti degli alpini?".
"Sì, moltissimo, potrei ascoltarli per ore e ore".
"Ami lo sport?".
"Sì, gioco a tennis, d'estate nuoto e d'inverno vado a sciare."
"A me piace tanto il calcio, e a te?"
"Ehm... sssì.."
"Fai il tifo per qualche squadra?"

 

Credo che la sua fu una bugia, una di quelle bugie che si raccontano ai primi appuntamenti per compiacere l'altro appena conosciuto, per non sbagliare. Maria Irene De Vecchi, milanese, detta Lalla, di famiglia borghese, una famiglia dove tutti erano ferventi monarchici e ignoravano il calcio, prima di rispondere pensò al re Umberto II di Savoia, chiamato Re di maggio per il suo breve regno durato dal 9 maggio al 18 giugno del 1946, e rispose con serena sicurezza:
"Sì, per la Juventus."
"Coosaa? Ma perché?"
"Perché è la squadra del nostro Re."
"Ah sì, allora devo dirti che io tifo Inter e ho votato Repubblica!".
"Nooo...".
Però, nonostante questo incidente diplomatico, ci eravamo piaciuti.


matrimonio priscoIo e la Lalla iniziammo a frequentarci sempre più assiduamente, finendo per innamorarci. E così, dopo aver risolto i nostri precedenti legami, ci fidanzammo. Con l'iscrizione all'albo degli avvocati, lavoravo ormai stabilmente nello studio di papà e i progetti di matrimonio si fecero concreti.

 

Il 10 novembre 1948, mercoledì, quando uscimmo dalla chiesa Santa Francesca Romana in via Alvise Cadamosto, eravamo marito e moglie. Per i primi sei mesi vivevamo in una stanza in affitto, ma in breve tempo decidemmo di comperare un bilocale in via Fontana 15, vicino allo studio di via Podgora e al tribunale.

 

I figli tardavano ad arrivare, così entrò nella nostra vita la dolcissima Erica, un cocker. Era di mio cognato Lino, che allora aveva quattordici anni: per tenerla un po' noi gli pagavamo una specie di "affitto", finché, dopo una serrata trattativa economica, ottenemmo di averla sempre con noi. Era un cane molto intelligente, buono e goloso.

 

Diventò membro effettivo della famiglia. Poi, a 7 anni, la dolce Erica rubò dal carrello una zuppa inglese intrisa di rum, si ubriacò e si ammalò di cirrosi epatica, finendo per morirne. Un grande dolore, che solo chi ama gli animali può capire. Negli anni i cani sarebbero stati cinque, accompagnati e conviventi con un numero imprecisato di gatti.

 

L'ultimo cane è stata la non meno dolce Belinda, una bassottina a pelo duro che mia figlia aveva regalato alla Lalla. Ma lei, pur adorandola, preferiva lasciare a me il compito di portarla a fare pipì. E così, tutte le sere, io facevo quello che chiamavo il mio "dovere coniugale". Caratterialmente io e la Lalla siamo sempre andati d'accordo. Era l'alimentazione il nostro grande terreno di confronto e di battaglia: abbiamo sempre avuto gusti e idee opposte sul cibo.

 

lalla prisco"Peppino, non mangiare questo perché ti fa ingrassare, non mangiare quello perché ti fa male..."; "stai attento al colesterolo... vai a fare le analisi,..." Già. In casa ero costretto a mangiare piatti salutisti.

 

La Lalla era una brava cuoca, ma coi condimenti e coi grassi eravamo sotto il minimo sindacale. E io avevo imparato ad aggiungere il sale senza nemmeno assaggiare. Sulla quantità, invece, niente da dire. Allora si mangiava ancora il primo e poi il secondo con contorno.

 

Non c'era una vera e propria specialità della casa: pasta o riso a mezzogiorno, poi un secondo leggero; minestra, carne, o formaggio alla sera, pesce solo al venerdì. Tutte cose tradizionali. Io ho sempre amato il salame e il cioccolato, ma secondo lei l'uno e l'altro erano alimenti peccaminosi e proibiti. Così il mio rifugio per consumarli erano le cene con amici, avvocati, tifosi dell'Inter. Una volta qualcuno mi fece dono di alcuni salamini nostrani, profumati e succulenti; prima di suonare alla porta di casa bussai a quella di mio figlio Luigi: "Sono per me?" mi chiese.


"Beh, anche... ma soprattutto vorrei mangiarli anch'io. Tienili nel tuo frigo altrimenti tua madre è capace di regalarli a qualcuno."
Per inquadrare il rapporto di mia moglie con il cibo, mi diverte usare questa immagine: se rincasando mi dovesse trovare a letto con un'altra donna, in flagranza di reato di adulterio, prima di avere una qualsiasi reazione andrebbe a controllare sotto il cuscino per vedere se c'è un panino col salame!

 

A volte esageravo, c'erano settimane in cui presenziavo a quattro, cinque, cene. Ho sempre detto pochi no e quando gli inviti capitavano alla stessa ora e nello stesso giorno prendevo l'aperitivo e mangiavo il primo da una parte, il secondo e il dolce dall'altra. Verso i sessant'anni, accumulato qualche chilo di troppo, avevo deciso di seguire i consigli di Tito Dagrada, mio caro amico – e, in seconda battuta, mio medico personale – che mi fece rinunciare ai "fuori pasto" e rifiutare le offerte dei "bis". Il risultato, per la gioia di mia moglie, fu immediato e stupefacente: più di 15 chili persi in pochi mesi.

 

cane prisco"Buongiorno avvocato come va? Sta recuperando dopo l'operazione?" "Quale operazione, scusi?!" Questo scambio di battute in tribunale mi fece capire di avere esagerato con la dieta: ero diventato troppo emaciato. Smisi di fare rinunce e mi ripresi qualche libertà. Senza esagerare. Una di queste, molti anni dopo, fu di partecipare (di nascosto da mia moglie) in veste di giurato al concorso gastronomico del "Salamino d'oro" che si svolgeva ogni anno al ristorante "Antica Barca" di Cavenago d'Adda: un'intera serata dal sapore intenso che doveva decretare il migliore salame del Lodigiano – e non solo – tra decine di assaggi. Se mi concentro riesco a sentirne ancora oggi i profumati effluvi.

 

La mia passione per il salame era superata solo da quella per il caffè, credo di avere stabilito una sorta di record quando un giorno sono arrivato a berne una trentina. Sì, una trentina di caffè, anche se normalmente mi "accontentavo" di quindici o venti...

"Peppino, se vai sempre così forte prima o poi scoppi" mi rimproverava mia moglie. Ma io avevo il terrore di rallentare il mio ritmo di vita. Se lo si fa, mi dicevo, ci si affloscia, si diventa molli, si va in dismissione. A me è sempre piaciuto fare troppe cose. Troppe, non tante. Ho sempre sperato di morire combattendo in battaglia, non in un pensionato per anziani decrepiti.

 

E se non dovessi morire, non sarebbe per cattiva volontà, ma perché me ne mancherebbe il tempo. Insomma i caffè mi permettevano di seguire il ritmo vorticoso degli impegni lungo l'arco di tutta la giornata anche se spesso mi rendevano piuttosto nervoso.

 

Li bevevo al bar, ma anche ai distributori automatici del tribunale, quando avevo poco tempo; il mio preferito, però, era quello preparato a casa con la "cuccumella" completa di "cuppetiello" che tratteneva la condensa, l'aroma e ne garantiva un sapore assai speciale. 

 

Credo che la Lalla abbia trascorso la vita nel tentare di sottrarsi al ruolo che le imponeva il fatto d'essere la moglie di Giuseppe Prisco. È sempre rimasta un passo indietro, non ha mai voluto togliermi spazio né mettersi in mostra. Non lavorava, ma non è mai rimasta a casa in ozio: si è occupata tantissimo dell'educazione dei figli e si è impegnata dedicando tempo e denaro a opere di beneficenza.

 

Solo una volta, in quanto mia moglie, ha rilasciato un'intervista al telefono a un quotidiano e si è ritrovata il giorno dopo a leggere, con stupore, d'essere stata innamorata di Osvaldo Fattori, giocatore dell'Inter, e di avere tre figli anziché due.
"E ora confessa: dov'è il figlio segreto?!"
"Peppino, smettila: non mi farò più intervistare. Mai più!"

 

anna priscoLe facevo un sacco di scherzi (anche al telefono, imitando voci di altre persone) che lei subiva pazientemente anche se la mettevano in imbarazzo. Una volta volta eravamo al ristorante Santa Lucia, e c'era un violinista. La Lalla era infastidita. Io, conoscendo la sua timidezza, e sapendo che non amava particolarmente le canzoni napoletane, misi mille lire in mano al suonatore dicendogli: "mia moglie adora Core 'ngrato, ma gliela suoni da vicino e molto forte, perché è sorda". E lui eseguì. Gli altri si divertirono, ma naturalmente lei non gradì affatto.

 

Si è sempre arrabbiava molto mia moglie quando, sui giornali o in televisione, il mio nome era accostato solo all'Inter: "Questo calcio è insopportabile, allo stadio, in TV, nella pubblicità, ma ti conoscono solo per quello? Il tuo lavoro come avvocato non vale niente?". Per lei l'Inter era una vera e propria rivale in amore. Aveva ragione. Nei primi anni di matrimonio andavo allo stadio solo la domenica, poi arrivarono i mercoledì di coppa e infine, negli anni Novanta, il posticipo della domenica sera. Non ho fatto in tempo a godere di anticipi e posticipi tutta la settimana, come oggi, ma non me li sarei mai persi.

 

A casa ognuno aveva la sua televisione: la Lalla ha sempre amato il cinema e aveva una collezione infinita di film in videocassetta: credo che abbia visto decine di volte Il Gattopardo di Luchino Visconti. E io, così potevo seguire tranquillamente le partite. Edulcoravo la sua rabbia accompagnandola a teatro: per molti anni non abbiamo perso una sola prima milanese di qualsiasi rappresentazione, e qualche volta andavamo al cinema. Bastava decidere all'ultimo minuto e comprare i biglietti. Non come oggi, coi posti numerati.


I primi tempi mi accompagnava allo stadio, ma poi ha smesso. Devo ammettere che stare vicino a me, in tribuna, quando in campo c'era l'Inter, era difficile. Molto difficile. Mi ricordo una trasferta a Genova negli anni '50. Partita complicata, rognosa quella. Mi alzo, mi siedo, inveisco, protesto, vedo qualche rigore per l'Inter –non dato– e insulto l'arbitro; poi il nostro difensore Ivano Blason commette un fallo (se non fossi fazioso direi che si trattava solo di un intervento duro) sul loro attaccante.

 

Alla mia destra siede un tifoso del Genoa, certo Lucchese, mia moglie è a sinistra.

"Questo Blason ha già spaccato una gamba a Farnese Masoni del Napoli l'altra stagione!"
"No, non era Blason ma Franco Pedroni, del Milan" ribatto.
E Lucchese: "Ci scommetterei mille lire!"
"Se fossi sicuro che lei disponesse di mille lire, sarei tentato di accettare la scommessa."
Si alza offeso, mi fa vedere il portafogli e mi urla in faccia: "Ma come si permette?" e per poco non veniamo alle mani.
"Ma perché ti comporti così? Questa è l'ultima volta: non vengo più allo stadio!" mi disse la Lalla infuriata.
Io continuai a seguire la mia Inter, lei non venne più allo stadio per anni...